domenica 18 dicembre 2011

UN'INSOLITA CURA PER L'IMPOTENZA

Si tratta di un brano estrapolato dalle pagine finali del Satiricon di Petronio, dove il protagonista, il simpatico Encolpio, sempre in compagnia del caro Gitone, in seguito a delle avance ottenute da una nobile e bella signora, Circe, non si trova all'altezza per un problema di disfunzione erettile presumibilmente di tipo funzionale e di origine emotiva.

il testo è innanzitutto molto ironico e divertente nello stile di Petronio, in più dà un'idea di come fossero diffusi allora rimedi balordi e magici per la cura delle malattie cosa in effetti ancor oggi osservabile in Europa. E' inoltre per noi occasione di conoscere la cura di un disturbo non organico cosa che raramente viene riportata nella letteratura "medica" antica. E' pur vero che mai sovviene al protagonista l'idea di rivolgersi ad un medico..



...


Encolpio, nel tempio di Priapo, prega il dio di restituirgli la virilità]


...


Mentre così levo il mio inno, e intanto vigilavo con attenta cura il mio povero defunto, eccoti entrare nel tempio la vecchia Proseleno, coi capelli scomposti e vestita di nero da far paura, mi piglia per il collo e mi trascina fuori del vestibolo.


-Che razza di strigi si son divorate i tuoi nervi?- mi dice. -niente niente, mentre bighelloni di notte per i trivi hai inciampato in qualche porcheria o in qualche cadavere? non sei riuscito a rifarti nemmeno con il tuo piccolino, perbacco! ecco qua: smidollato, sfiancato, rifinito come una rozza su per una salita, ci hai rimesso la fatica e il sudore. E magari ti fossi accontentato di far spropositi per conto tuo. Macché! O che non hai tirato addosso anche a me l'ira degli dèi?

Poi mi trascina nella cella della sacerdotessa senza che io nemmeno pensassi a far resistenza, mi rovescia sul letto, afferra la sbarra dell'uscio e comincia a pettinarmi di santa ragione mentre io rimango ancora lì come un citrullo. Per fortuna la sbarra si spezzò al primo colpo diminuendo così l'impeto di quella furia, altrimenti mi avrebbe fracassato magari anche le braccia e la testa. Io mi misi a piangere e tanto più quando sentii che mi afferrava il punto critico; e, nascostomi il capo con la destra, lo ficcai sotto il cuscino, grondante di lacrime. Quella, che adesso piangeva anche lei peggio di me, si mette a sedere sull'altra parte del letto e con voce tremante comincia ad accusarsi di esser vissuta troppo a lungo per vedere cose come quelle. Finalmente arrivò la sacerdotessa e tagliò corto a queste lamentele.

-Che diavolo, -dice, -siete venuti a fare nella mia cella, tutti in lacrime come davanti a un rogo funebre appena spento? e per di più in un giorno di festa, quando ridono anche quelli che dovrebbero piangere? -Enotea mia, -le rispose Proseleno, -questo giovanotto che vedi è nato sotto una cattiva stella, perché non c'è ragazzo né ragazza a cui possa vendere quel che ha di buono. Un disgraziato come lui non l'hai mai visto di sicuro: al posto di quel che dovrebbe avere ci ha un pezzo di cuoio fradicio. A farla breve, come credi che possa essere uno che si è alzato dal letto di Circe senza aver combinato nulla?

A sentir questo, Enotea si mise a sedere tra noi e scosse la testa.

-Una malattia di questo genere, -disse poi, - non ci sono che io che sappia guarirla. E mica vi racconto frottole; chiedo solo che dorma una notte con me e non son più io se non glielo rimetto a posto duro come un corno.


"tutto al mondo mi è schiavo. La terra più fiorita,

se voglio, perde i succhi e langue inaridita,

se voglio lussureggia. Dalle rupi montane

fo uscire l'acque del Nilo. L'oceano si rimane

immobile al mio cenno, gli zefiri silenti

riposano ai miei piedi. A me fiumi e torrenti

obbediscono, e ircane tigri, e dragon fedeli.

Ma non basta: a' miei incanti precipita dai cieli

l'alto disco lunare, e Febo, timoroso,

frena i destrieri indomiti per guidarli a ritroso.

Tanto piò il detto. Il rabido torello sa quetare

la prece di una vergine, e Circe, la solare,

i compagni di Ulisse co' suoi incanti trasforma,

mentre mutarsi Proteo può come vuol. La norma

dell'arte io so: dall'Ida potrò trarre nel mare

le selve, e sulle vette i fiumi trasportare.


Inorridito da tante favolose promesse, mi sentii rabbrividire , e mi misi a osservar la vecchia sacerdotessa stando bene attento a quel che faceva.

-Avanti, -esclama allora Enotea, -obbedite al mio comando!

E, dopo essersi lavata accuratamente le mani, si chinò sul letto e mi baciò più volte. Portò poi in mezzo all'altare una vecchia tavola, la riempì di carboni ardenti, e, riscaldata un po' di pece, aggiustò con quella una ciotola, vecchia anche quella e rotta. Poi tornò a ficcare nella parete affumicata il chiodo da cui pendeva la ciotola di legno e che si era staccato quando l'aveva tolta. Si mise allora addosso una coperta quadrata e pose sul fuoco un'enorme cuccuma; dopo di che, con una forca trasse dalla dispensa un panno in cui erano raccolte delle fave destinate a quell'uso e un avanzo stravecchio di testa di maiale tutto tagliuzzato. Ecco che scioglie i nodi del panno, versa sulla mensa una parte delle fave e mi comanda di mondarle con tutta cura. Io obbedisco e mi accingo pazientemente a metter da parte cerve fave dal guscio marcio come più non si poteva; ma lei mi dà a un tratto del buonannulla, ripiglia sù le fave marce, strappa via il guscio coi denti e sputa a terra le bucce che parevan tante mosche da rivoltar lo stomaco. La povertà è ingegnosa, perdinci; e in quel tugurio ogni cosa era impiegata con molta abilità.


Non vi fulgea l'avorio d'India, incrostato d'oro,

né alcun lucido marmo al suol dava decoro

tolto alla madre terra; ma di salice un letto

che solo poca paglia copria, e di loto schietto

tazze che un'umil ruota tornia con facil gesto,

stillanti d'acqua, e cesti di vimine contesto,

e una brocca macchiata di vino appena. V'era

attorno alla parete, che di paglia leggera

e d'argilla era fatta, di rozzi chiodi adunchi, una fila, e graticci pendean di verdi giunchi.

Appese le provviste alla trave fumosa

eran dell'umil casa: la sorba saporosa

tra corone d'erbette odorant, e la grata

santoreggia, e una passa a grappoli ordinata:

così, degna di culto, Ecale, un dì accogliesti

Tèseo, là in terra d'Attica, e grande onor ne avesti

da Callimaco, musa del figliuolo di Batto,

che trasmise il tuo nome ed immortal ti ha fatto.


Ma, ahimè, mentre la vecchia sacerdotessa, sbocconcellando qualche briciola di carne, va per riporre con la forca nella dispensa la mezza testa di maiale, veneranda contemporanea della sua nascita, lo sgabello tarlato su cui era montata si sfascia e lei va cader di peso in mezzo al focolare. Il collo della cuccuma va in pezzi e lei stessa si brucia un gomito sur un tizzo ardente e fa saltar sù un nugulo di cenere che le imbratta tutto il viso. Io mi alzai di botto e. trattenendo appena le risa, rimisi in piedi la vecchia.... che scappò in fretta a cercar nel vicinato qualche cosa per riattivare il fuoco affinché nulla ritardasse il sacrificio.


[rimasto solo, Encolpio pensa forse a fuggire.]


(all'uscio Encolpio incappa in tre oche che gli ostacolano la fuga e mangiano le fave; ne ammazza una e le altre due fuggono. Per Enotea è un gesto gravissimo, ma due bei pezzi d'oro risolvono facilmente la questione)


[Frattanto Enotea comincia i suoi sortilegi.]


Mi mise in mano una ciotola piena di vino, mi comandò di tener le dita ben distese e, dopo avermele purificate a forza di fregarle con porri e con prezzemolo, gettò nel vino delle noci avellane borbottando scongiuri. A seconda che quelle stessero a galla o andassero a fondo traeva i suoi pronostici, ma io vedevo bene che le nocciole vuote e piene d'aria restavano al sommo del liquido e quelle piene e col frutto intatto calavan giù. Poi, sventrata l'oca, ne cavò un fegato enorme e da quello mi predisse il futuro. Anzi, perché non restasse alcuna traccia del mio delitto, tagliò a pezzi tutto l'animale, li infilò nello spiedo e preparò un festino in piena regola a quello che poco prima, a sentir lei, avrebbe dovuto andare difilato in croce. Frattanto volavano certe bevute di vino puro che lèvati.


Poi Enotea tira fuori un fallo di cuoio da far paura, lo unge tutto d'olio, di pepe in polvere e di semi di ortica tritati e, senza dir ai né bai, comincia a ficcarmelo dentro piano piano. E mica si ferma lì, quella terribile vecchia: eccoti che mi unge tutte le cosce con la stessa miscela d'inferno, e poi mette insieme sugo di nasturzio e di abrotano e mi spalma con quella porcheria le parti colpevoli, e infine afferra un fascio di ortica verde e si mette a frustarmi lentamente con quello dall'ombellico in giù.


[Esasperato il giovane fugge.]


(accadono diversi episodi che coinvolgono il protagonista, Gitone, l'ancella Criside e Circe; anche il testo originale è lacunoso)


[Vi è qui una vasta lacuna. Un intervengo divino sembra aver restituito a Encolpio il suo vigore.]


-Divinità ben più potenti, - gli urlo negli orecchi, -hanno rifatto di me un uomo completo. Lo stesso Mercurio, che conduce e riconduce le anime, mi ha reso con la sua benevolenza quel che una mano irata mi aveva tolto. E, se proprio vuoi convincerti che io sono adesso assai meglio fornito di Protesilao o di qualsiasi altro eroe dell'antichità, guarda qua!

E così dicendo mi rialzo la tunica e mi mostro a Eumolpo in tutta la mia gloria. Quello dapprima dà un balzo indietro sbigottito, poi, non sapendo prestar fede ai suoi occhi, mi afferra a due mani quella grazia degli dèi.

domenica 25 settembre 2011

La ferita di Menelao

ILIADE, canto IV: il celebre episodio della ferita di Menelao, e le gesta di Macaone, medico illustre, che cura la ferita e lenisce il dolore.

..Disse così e spronò Atena già piena d'ardore; dalle cime dell'Olimpo scese d'un balzo, la dea, simile all'astro che il figlio di Crono dai sottili pensieri invia come presagio ai marinai o ai guerrieri di un esercito immenso, fulgida stella dalle mille scintille; come una stella si lanciò sulla terra Pallade Atena, e balzò in mezzo ai due eserciti; e nel vederla stupirono i Troiani domatori di cavalli e gli Achei dalle belle armature; rivolto al compagno, qualcuno diceva così:

"nascerà certo una guerra brutale e una lotta crudele, oppure tra i due popoli Zeus stabilirà amicizia, lui che è arbitro delle guerre degli uomini".

Così, fra Troiani ed Achei, diceva qualcuno; e intanto tra le schiere dei Teucri si immerse la dea, simile in tutto a un uomo, a Laodoco figlio di Antenore, valoroso guerriero; cercava Pandaro pari agli dei, se mai riuscisse a trovarlo; trovò il figlio di Licaone nobile e forte, in piedi, e intorno a lui le file dei guerrieri armati di scudo, che lo seguirono dalle rive dell' Esopo; gli andò vicino la dea e gli rivolse queste parole:

"vorrai ascoltarmi, valoroso figlio di Licaone? Oseresti scagliare su Menelao un dardo veloce, per conquistare gloria e favore davanti a tutti i Troiani ma soprattutto ad Alessandro? Da lui riceverai splendidi doni, se vedrà il valoroso figlio di Atreo salire sul rogo funesto, ucciso dalla tua freccia. Colpisci dunque col dardo Menelao glorioso, e prometti di offrire ad Apollo di Licia signore dell'arco un'ecatombe di agnelli primi nati, perfetti, quando sarai di ritorno alla sacra città di Zelea".

Così disse Atena, e persuase il folle nel cuore; subito egli afferrò l'arco ben levigato, fabbricato con le corna di uno stambecco che un giorno -in un agguato- egli colpì sotto lo sterno mentre da una roccia balzava, lo colpì in pieno petto e sulla roccia esso cadde riverso; di sedici palmi erano le corna sul capo; le lavorò un artigiano esperto, adattandole, e dopo averle ben levigate, vi applicò degli aurei puntali.

Dopo aver teso l'arco, Pandaro lo posò a terra con cura; davanti a lui i forti compagni tenevano ritti gli scudi perché i figli degli Achei valorosi non attaccassero prima che il prode figlio di Atreo fosse colpito. Sollevò il coperchio della faretra l'eroe, ne tolse una freccia nuova, veloce, fonte di neri dolori; alla corda dell'arco adattò il dardo amaro e fece voto di offrire ad Apollo di Licia dall'arco famoso un'ecatombe di agnelli primi nati, perfetti, al suo ritorno nella sacra città di Zelea; poi prese la cocca e la corda di nervo di bue e le tirò insieme, vicino al petto la corda, all'arco la punta di ferro. A cerchio si tese il grande arco, suonando, acuta stridette la corda, e la freccia dalla punta acuta partì, volando tesa in mezzo ai guerrieri.

Ma di te, Menelao, non si scordarono gli dei beati, immortali, soprattutto la figlia di Zeus, dea dei bottini di guerra; lei ti si mise davanti e allontanò il dardo acuto; lo deviò dal tuo corpo -come una madre scaccia una mosca dal figlio, immerso nel sonno soave-, e lo diresse là dove si uniscono i fermagli d'oro della cintura e doppia è la corazza; cadde sulla chiusa cintura il dardo amaro, attraverso i fregi passò nella corazza dai molti ornamenti si infisse e nella fascia che l'eroe portava a difesa del corpo, a riparo dai dardi: anche quella -che molto lo proteggeva- oltrepassò la freccia graffiando la pelle dell'uomo in superficie; subito il nero sangue sgorgò dalla ferita.

Come quando una donna, di Caria o di Meonia, tinge di porpora un pezzo di avorio per le briglie dei cavalli, lo tiene nella sua stanza e molti cavalieri vorrebbero portarlo, ma è un ornamento da re, onore del cavallo e gloria del cavaliere; così a te, Menelao, si rigarono di sangue le cosce robuste, le gambe, le belle caviglie. Tremò allora Agamennone, signore di popoli, vedendo scorrere il sangue dalla ferita; tremò anche Menelao caro ad Ares, ma quando vide che corda ed uncini erano rimasti fuori dal corpo, riprese coraggio nel cuore; disse allora il potente Agamennone, prendendo il fratello per mano e piangendo amaramente, mentre intorno i compagni gemevano:

"fratello mio caro, ho dunque sancito un patto di morte mandando te solo davanti agli Achei a combattere contro i Troiani: essi ti hanno colpito, calpestando i patti leali. Ma non è ancora vano del tutto il giuramento, il sangue degli agnelli, le libagioni di vino puro, le strette di mano di cui ci fidammo; ciò che il dio dell'Olimpo non ha ora compiuto, lo compirà più tardi e un duro prezzo pagheranno i colpevoli, con le vite loro, e dei figli e delle mogli. Io lo so bene, nel cuore e nell' animo: giorno verrà in cui perirà Ilio sacra e Priamo e la gente di Priamo dalla lancia gloriosa. E Zeus, il figlio di Crono che dimora alto nell' etere, scuoterà contro costoro la sua egida oscura, irato per l'inganno; tutto ciò avrà compimento. Ma tremendo sarà il mio dolore per te, Menelao, se muori e compi il tuo destino; coperto di vergogna ritornerei all'arida terra di Argo; subito infatti gli Achei ripenseranno alla loro patria; lasceremo allora a gloria di Priamo e dei Troiani Elena d'Argo; marciranno a Troia le tue ossa, sotto la terra, e l'impresa rimarrà incompiuta; e fra i Troiani superbi forse qualcun dirà calpestando la tomba di Menelao glorioso: -Possa sempre sfogare così la sua ira Agamennone, come ora ha condotto fin qui l'esercito acheo, invano, e con le navi vuote è tornato a casa, nella sua patria, abbandonando Menelao valoroso-. Così dirà un giorno qualcuno: e allora si spalanchi davanti a me la terra immensa".

Rincuorandolo, gli disse il biondo Menelao:

"non temere e non spaventare gli Achei; non ha colpito a fondo il dardo acuto, prima l'hanno frenato la variopinta cintura e sotto la fascia e il corsetto, opera di abili fabbri".

gli rispose il potente Agamennone:

"fosse così davvero, Menelao diletto; ma ora un medico vedrà la ferita e vi apporrà dei farmaci che plachino il nero dolore".

Disse e poi si rivolse a Taltibio, l'araldo divino:

"presto, Taltibio, chiama Macaone, figlio di Asclepio, medico illustre, che venga a prendere Menelao, il valoroso figlio di Atreo: l'ha colpito di freccia un guerriero esperto nell'arco, uno dei Lici o dei Teucri, per la sua gloria, per il nostro dolore".

Disse così, gli obbedì prontamente l'araldo, e si avviò fra gli Achei dalle bronzee corazze, cercando con gli occhi l'eroe Macaone; lo vide, in piedi, in mezzo alle file di forti guerrieri armati di scudo che da Tricca lo seguirono, terra di cavalli; gli fu accanto e gli rivolse queste parole:

"Vieni, figlio di Asclepio, ti chiama il potente Agamennone, perché tu venga a vedere il valoroso Menelao, capitano dei Danai: l'ha colpito di freccia un guerriero esperto nell'arco, uno dei Lici o dei Troiani, per la sua gloria, per il nostro dolore".

Disse così, e commosse il suo cuore: si avviarono tra le schiere, attraverso l'immensa armata dei Danai, e giunsero là dove il biondo Menelao giaceva ferito; intorno a lui avevano fatto cerchio i guerrieri migliori; si fermò in mezzo a loro, l'uomo simile a un dio, e subito strappò la freccia dalla salda cintura: si spezzarono gli uncini aguzzi mentre tirava; sciolse poi la variopinta cintura e al di sotto fascia e corsetto, opera di abili fabbri; e come vide la ferita, là dove il dardo amaro aveva colpito, ne succhiò il sangue e poi abilmente vi applicò i dolci farmaci che un tempo Chirone, con animo amico, aveva donato a suo padre.

Mentre essi curavano Menelao dal grido possente, le schiere dei Teucri armati di scudo vennero avanti: avevano rivestito le armi, non pensavano che alla battaglia.

Ma neppure il divino Agamennone allora dormiva, né mostrava paura, né rifiutava la lotta, si affrettava anzi alla battaglia gloriosa; abbandonò il carro ornato di bronzo e i cavalli; glieli teneva in disparte, ansanti, lo scudiero Eurimedonte, figlio di Tolomeo, figlio di Piereo; a lui comandava Agamennone di tenerli vicini, se mai la fatica gli piegasse le membra mentre passava in rassegna tanti guerrieri..



domenica 27 febbraio 2011

Ippocrate: medicina e cucina

La cucina, l'alimentazione, è tanto oggi quanto in passato strettamente intrecciata con la medicina e la salute. In europa oggi c'è grande attenzione all' alimentazione, perché in assenza di una dieta equilibrata e moderata si rischiano importanti malattie come il diabete, l'ipertensione e l'obesità. In passato invece tale mancanza d'equilibrio, sia nella popolazione povera, sia in quella ricca, portava a quadri acuti come da carenza di vitamine e nutrienti. Inoltre, ancor oggi, la maggioranza dei disturbi lamentati dai pazienti in medicina generale è strettamente riconducibile all' apparato gastroenterico, disturbi che, come insegna Axel Munthe, cambiano nome ma rimangono sostanzialmente immutati nel corso dei secoli. E' quindi molto interessante e valido ritrovare, anche nel mondo classico, precetti cucinari volti ad evitare i più disparati disturbi alimentari oppure a guarire, o anche a prevenire. Sfogliando il libro La cucina del mondo classico di Gianni Race (edizioni scientifiche italiane) nella ricerca di fonti culinarie del mondo classico (purtroppo solo radi indizi e mai un vero ricettario del mondo classico ci è stato tramandato, che comunque risulterebbe essere difficilmente intellegibile per la diversità del gusto, del sapore, dei prodotti che ci separano) siamo quindi incappati in alcuni suggerimenti del grande maestro Ippocrate estremamente pertinenti con le nostre pubblicazioni.





SE SI PRENDE LA PLEURESIA


"allorché la febbre lo lasci andare, sorbisca per due giorni il miglio, per due volte al giorno mangi bietole dal gusto più dolce. poi dopo di ciò fatto un piccione o un pollo ben bollito ne sorbisca il brodo e carni ne consumi poche. per il resto del tempo, per quanto egli particolarmente è tenuto dalla malattia, faccia colazione col miglio e a sera usi alimenti della minore quantità ed i più emollienti possibile"

(sulle malattie, II, A, 44)


(malattia) livida

....e far bere alla stagione latticello e latte di asina ed usare alimenti più emollienti possibile, e freddi, astenendosi da quelli agri e salati; usi alimenti più oleosi, dolci e grassi...

(sulle malattie, II, A, 71)


infiammazione bianca

...usare come alimenti pane di farina pura, bietole, scorfani bolliti, pesci cartilaginosi e carni di montone tritate, bollite: brodo il meno possibile e tutti quanti freddi e non dolci né oleosi, ma tritati e acuti ed agri, eccetto aglio e cipolla o porro; origano o santoreggia mangiarne molto e berci sopra vino generoso e camminare prima del pasto...

(sulle malattie, II, A, 71).


L' EVOLUZIONE DELL' ALIMENTAZIONE, DALLE ERBE AL PANE


"e andando ancora più indietro, io ritengo che non sarebbe stato scoperto neppure il regime dei sani e la loro alimentazione, quella a cui ora ricorrono, se fosse stato adeguato, per l'uomo, il medesimo mangiare e bere del bue, del cavallo e di tutti gli animali fuor che l'uomo, quali i prodotti diretti della terra, frutti, frasche ed erba.

con questi bici in effetti gli animali si alimentano e si sviluppano e vivono senza penarne e senza avere affatto bisogno di un altro regime. e per l' appunto credo, per parte mia, che almeno in principio anche l'uomo abbia fatto ricorso ad un' alimentazione di tal genere; ed il suo regime di ora, che è stato scoperto ed elaborato artificialmente, mi sembra che si sia prodotto in un lungo tempo. Molte e terribili sofferenze essi riportavano da un regime forte e bestiale con l'ingestione di sostanze crude, intemperate e dotate di grandi poteri, sofferenze quali appunto anche ora riporterebbero da queste sostanze incorrendo in forti pene e malattie e, ben presto, in morte.

Certamente, è evidente che allora fossero minori queste sofferenze per via dell' abitudine - ma forti anche allora - ed è evidente che la grandissima parte degli uomini, dotati di una natura più debole, perissero, ed invece quelli che erano più prestanti resistessero per più tempo; come anche ora gli uni facilmente riescono a liberarsi dei cibi forti, mentre altri solo con molte pene e malanni. spinti allora da questa necessità a me sembra che anche costoro ricercarono un' alimentazione adatta alla loro natura e così scoprirono quella a cui ora facciamo ricorso.

E dunque dal grano, sottoposto al macero e alla mondatura, macinatolo e setacciatolo, con l'impasto e la cottura, arrivarono a produrre il pane, e dall' orzo la focaccia; e molte altre lavorazioni effettuarono riguardo all'alimentazione: bollirono, cossero, mescolarono e temperarono le sostanze forti ed intemperate con quelle più deboli, conformandole tutte alla natura ed al potere dell' uomo."

(Sull'antica medicina, 3)



IPPOCRATE 1991, Testi di medicina greca, traduzione di A. Lami, Rizzoli - Milano.

domenica 14 novembre 2010

L' Arte Medica ai tempi di Pericle

I seguenti due brani sono estrapolati dall' opera di Robert Flaceliere La vita quotidiana: La Grecia ai Tempi di Pericle e rappresentano una attendibile analisi di come venisse sentita e praticata la professione medica ai tempi di Pericle. I due brani si focalizzano sulla cura dei malati e sulla problematica dell' ostetricia. E' interessante considerare che anche in Italia fino al primo dopoguerra (cioè fino a soli 70 anni fa) l'organizzazione sanitaria del territorio si preoccupasse di organizzare due servizi fondamentali, un medico per tutte le esigenze ed una levatrice per l'assistenza ai parti. Non sembrerebbe quindi essere molto dissimile dalla sanità pubblica che si teneva ad Atene.

sul parto ad Atene

Le ateniesi partorivano circondate dalle donne di casa; il termina maia poteva indicare qualsiasi donna di una certa età, qualsiasi schiava esperta, capace di adempiere al compito di omphalotomos (tagliatrice del cordone ombelicale). ma nei casi difficili si faceva appello a una ostetrica o a un medico.

prima della nascita si ungeva la casa con pece, per cacciare i demoni, o perché essa proteggeva dalla contaminazione; ogni nascita comportava una contaminazione per la madre e per tutta la casa; per questo nessun parto poteva aver luogo all' interno di un santuario. quando il bambino era nato si poneva sopra la porta un ramoscello d'olivo se era un maschio, una striscia di lana se era una bambina, in segno di festa e anche per informare i vicini della nascita e del sesso del neonato.

Il quinto o il settimo giorno dopo la nascita aveva luogo la festa familiare delle anfidromie. essa consisteva in purificazioni con acqua lustrale per la madre e per tutte le persone che avevano toccato cioè avevano partecipato al parto e nella cerimonia che integrava il neonato nel gruppo sociale: egli veniva portato di corsa intorno al focolare (anfidromia significa corsa intorno). in quell' occasione si riunivano tutti i membri della famiglia. da quel momento il bambino veniva accettata dalla comunità; si era deciso che lo si sarebbe allevato e il padre di famiglia non aveva più il diritto di sbarazzarsene.


la medicina come professione libera

a dire il vero, Platone non sembra considerare la medicina come una arte liberale. ciò dipende senz' altro dal fatto che molti ciarlatani si facevano passare per medici. non esisteva, in effetti, alcun diploma e chiunque poteva proclamarsi medico. molti pretesi guaritori operavano con formule magiche o interpretando i sogni; quest'ultimo metodo era praticato in grande nel santuario di Asclepio a Epidauro, di cui riparleremo.

Ma c' erano anche veri medici. erano in generale uomini liberi. ma avveniva talvolta che un uomo ricco facesse imparare a un suo schiavo la medicina per farsi curare e i medici stessi avevano i loro schiavi che facevano da aiutanti e acquisivano così la pratica dell' arte.

la medicina, fiorente in Egitto da secoli, aveva in Grecia lunghe tradizioni che risalivano almeno all' epoca omerica. i filosofi ionici si interessavano molto alle teorie mediche e molti sofisti nel V secolo pretendevano di insegnare, fra l'altro, anche la medicina. c'era un centro di formazione medica a Cnido e forse un altro a Crotone, patria del celebre Democede, che fu medico pubblico a Egina, poi ad Atene prima di passare al servizio di Policrate di Samo e infine del re Dario. Ma sembra che la medicina, non solo empirica ma razionale, sia nata nell' isola di Coo dove la famiglia degli Asclepiadi si trasmetteva le conoscenze da essa acquisite di padre in figlio senza rifiutare di comunicarle anche ad apprendisti medici, estranei al genos.

L' illustre Ippocrate di Kos nacque verso il 460 a.C.: è il padre, se non della medicina, almeno di un metodo fondato esclusivamente sulla osservazione e la ragione e anche di un vero e proprio umanesimo medico che si esprime in modo toccante nel giuramento, nel trattato dell' antica medicina e negli aforismi del corpus hippocraticum.

I pedotribi erano costretti dalla loro attività a praticare una specie di medicina dei ginnasi. dovevano essere degli igienisti e dei dietisti per poter consigliare agli atleti il miglior regime alimentare e massaggiatori e conciaossa per ridurre le fratture, lussazioni e contusioni. Erodico di Selimbria, dopo essere stato a lungo pedotribo, si ammalò e diventò medico. C'erano medici per atleti e anche medici militari che, come si legge nell' Iliade, accompagnavano gli eserciti nelle campagne per curare i feriti, come vediamo, per esempio, nell' Anabasi. Gli apprendisti medici si formavano presso un maestro nell' arte di dare una diagnosi e una prognosi e nell'eseguire tutte le operazioni manuali necessarie, come il salasso, il clistere, l'applicazione di ventose (se ne sono trovate in corno e in bronzo). Imparavano anche a praticare alcune operazioni chirurgiche superficiali ma la conoscenza della anatomia restava molto limitata perché i costumi e la mentalità religiosa si opponevano alla dissezione dei cadaveri umani: si sezionavano solo gli animali.

Il pubblico aveva a disposizione libri di medicina e poteva procurarsi direttamente i farmaci presso il farmacopolo o farmacista che si riforniva a sua volta dal rizotomo (tagliatore di radici) perché la raccolta di piante medicinali dalla più remota antichità era considerata una parte essenziale dell' arte di guarire. ma il più delle volte i medici preparavano loro stessi le medicine che somministravano ai loro malati. avevano dei laboratori e alcuni di loro potevano anche ospitare in casa loro i malati il cui trattamento volevano sorvegliare dappresso. altri medici erano ambulanti e, come i sofisti, si recavano nelle diverse città per offrire i loro servigi. una istituzione largamente attestata e caratteristica è quella dei medici pubblici (demosioi iatroi). Abbiamo segnalato più in alto il caso di Democede di Crotone. Verso la metà del V secolo una tavoletta di bronzo di Idalion, a Cipro, ci permette di conoscere il contratto stipulato fra tale città e il medico Onasilos e i suoi fratelli che si impegnavano, dietro una retribuzione globale, a curare i feriti di guerra.

Ad Atene, i medici pubblici erano scelti dall' Assemblea dei cittadini di fronte alla quale esibivano i loro titoli. la città li retribuiva, metteva loro a disposizione un locale per le visite, le operazioni e il ricovero dei malati e le medicine erano pagate dallo stato. le spese richieste da questo servizio sociale erano coperte da una tassa speciali, l'iatricon. i malati che non avevano i mezzi per ricorrere alle cure di un medico privato erano dunque curati gratuitamente come nei moderni ospedali.

In Grecia ben raramente operavano specialisti mentre, almeno secondo Erodoto, già ne esistevano molti in Egitto. la specialità meglio conosciuta è quella dell' oculista che curava gli occhi dei clienti soprattutto con dei colliri. C'erano dentisti capaci di otturare i denti con piombo di indorarli. Una battuta scherzosa di Aristofane può far supporre che esistessero specialisti per le malattie intestinali.

Le donne potevano essere medici ma di solito erano confinate a compiti di infermiera e, soprattutto, di levatrice. Socrate era figlio di una ostetrica e Platone lo fa parlare a lungo di questa professione a proposito della sua maieutica, l'arte di far partorire le menti. Per le malattie intime le donne, per pudore, esitavano a ricorrere a un medico e facevano appello più spesso a donne del loro sesso. La nutrice di Fedra, che parla come una contemporanea di Euripide, dice alla sua padrona: "se soffri di un male che non si deve dire, ecco le donne che potranno aiutarti a calmarlo; se si tratta di un accidente che si può rivelare, parla in modo che il tuo caso sia segnalato ai medici" (Euripide - Ippolito).

Ma, oltre alle levatrici, le guaritrici, anche più dei guaritori, ricorrevano alle pratiche magiche e ai sistemi delle "mammane".

lunedì 4 ottobre 2010

Fonti di Erodoto (II)

l'urina come medicamento

" ...Fero diventò cieco nel modo seguente: ... ... allora dicono che il re, temerariamente, abbia preso un giavellotto e lo abbia gettato in mezzo ai gorghi del fiume: subito dopo si ammalò agli occhi e divenne cieco, e tale rimase per undici anni. L'undicesimo gli fu risposto dall' oracolo della città di Buto che il tempo della sua espiazione era finito e che avrebbe riacquistato la vista se si fosse lavato gli occhi con l'urina di una donna che avesse avuto contatti fisici solo col proprio marito e mai con altri uomini. Dapprima egli fece la prova con l'urina della propria moglie, ma poiché non riacquistò la vista, riprovò con quella di molte altre donne successivamente; quando infine ricuperò l'uso degli occhi, il re raccolse tutte le donne , che si erano prestate alla prova, eccetto quella dalla cui urina era stato risanato, in una città, che ora si chiama Eritrebolo, e le diede alle fiamme insieme alla città stessa. Quella, l'urina della quale l'aveva guarito, la fece sua sposa..."


l'oculista

"...quando Ciro aveva chiesto al re d' Egitto di mandargli un oculista, il migliore che si trovasse nel paese. Risentito di questo, il medico egiziano fece pressione su Cambise..."


i crani più duri

"ho constatato qui una cosa curiosa, che mi era stata segnalata dalla gente del luogo: le ossa dei caduti nella battaglia giacevano ammassate, ma separatamente (da un lato quelle dei persiani, così come erano state messe in disparte fin d'allora, e dall' altro lato quelle degli egiziani); ora i crani dei persiani sono così fragili, che solo a batterli con un ciottolo si sfonderebbero, mentre quelli degli egiziani sono così duri che neppure con una grossa pietra si riuscirebbe a spezzarli. Del fatto mi hanno dato una spiegazione, che mi ha facilmente persuaso: gli egiziani, fin da bambini, si radono il capo e così le ossa del cranio si ispessiscono sotto il sole e per questo stesso motivo essi non diventano calvi. perciò dunque essi hanno il cranio così resistente. Invece i persiani lo hanno fragile, perché sin dall'infanzia tengono la testa coperta con berretti o tiare. queste sono dunque le constatazioni che ho fatte: e di simili ne feci a Papremi sui crani dei persiani che perirono con Achemene, figlio di Dario, sotto i colpi del libico Inaro."


sulla malattia sacra (epilessia)

"in questo modo Cambise incrudelì contro i suoi più stretti congiunti, sia che ciò avvenisse per causa di Api o per altro motivo; ché tanti sono i mali che possono colpire un uomo. Si dice infatti che sin dalla nascita egli fosse affetto da una grave malattia, che alcuni chiamano sacra; nessuna meraviglia quindi che, essendo il suo corpo malato di questo morbo, non avesse sana nemmeno la mente. Ma ecco altri atti di follia da lui commessi contro altri Persiani."


presso gli indiani

"altri indiani, invece, che abitano più a oriente, sono nomadi, si cibano di carne cruda e si chiamano Padei. Si attribuiscono loro queste usanze: quando uno è malato, uomo o donna, i congiunti più stretti, se è uomo, lo uccidono, dicendo che, se lo lasciassero consumare dalla malattia, la sua carne si corromperebbe e anche se quello protesta di non essere malato, non gli danno retta, lo uccidono e lo mangiano in un banchetto. Se si tratta di una donna, che si ammala, sono le donne, sue congiunte strette, che si comportano come fanno gli uomini coi malati di sesso maschile. Se qualcuno poi giunge alla vecchiaia, anche questo i Padei lo immolano e se ne cibano: ma pochi sono quelli che arrivano a tarda età, perché, chiunque s'ammali, viene subito soppresso.

Altri indiani ancora usano così: non uccidono nessun essere vivente, non seminano e non hanno case. Si cibano di erbe: cresce spontaneamente presso di loro una specie di granello, grande press'a poco quanto il miglio e avvolto in un baccello. Essi lo raccolgono, lo fanno bollire insieme col baccello e lo mangiano. Se uno di loro si ammala, si ritira nel deserto e nessuno si cura di lui né durante la malattia né a morte avvenuta."


i migliori medici greci

"Quando già erano stati trasportati a Susa i tesori di Orete, accadde, poco tempo dopo, che Dario, saltando da cavallo durante una caccia grossa, si distorse gravemente un piede, slogandosi l'astragalo. Sempre egli aveva tenuto presso di sé dei medici egiziani, che avevano fama di essere i migliori del mondo: perciò anche in quell'occasione ricorse alle loro cure. Ma essi, sebbene torcessero e sforzassero il piede, non fecero che peggiorare le cose: per sette giorni e sette notti il re non riuscì a prendere sonno per le continue sofferenze: infine, l'ottavo giorno, poiché stava sempre peggio, un tale, che aveva già sentito vantare a Sardi l'abilità di Democede di Crotone, ne parlò a Dario, che comandò glielo conducessero al più presto. Lo trovarono confuso fra gli schiavi di Orete e di là lo trassero al cospetto del re, coi ceppi ai piedi e coperto di cenci.

Dario, come se lo vide davanti, gli domandò se davvero conosceva l'arte della medicina: e quello, temendo che, se rivelava il suo vero essere, non avrebbe potuto mai più ritornare in patria, disse di no. Ma il re, convinto che egli fosse un medico esperto, ordinò a quelli che glielo avevano condotto di portare delle sferze e dei pungoli. Allora Democede confessò di conoscere la medicina, ma non perfettamente, di averne solo qualche nozione per aver praticato molto con un medico. Comunque Dario si affidò alle sue cure e Democede, servendosi dei sistemi greci e applicandogli prima un trattamento energico e poi dei calmanti, gli diede la possibilità di dormire e infine lo guarì in breve perfettamente, quando ormai il re disperava di poter più usare del suo piede come una volta. Per questo servigio Dario donò a Democede due coppie di ceppi d'oro, al che questi gli domandò se riteneva di compensarlo equamente della guarigione, infliggendogli un doppio castigo. Piacque il rilievo a Dario, che mandò il medico presso le sue donne, alle quali gli eunuchi lo presentarono come colui che aveva ridato la vita al re; ognuna delle donne, pertanto, attingendo con una coppa da un forziere, donò a Democede dell' oro, in tale quantità, che il servo, di nome Schitone, che lo seguiva, raccattando le monete che cadevano fuori dalla coppa, ne raccolse un bel numero.

Democede, proveniente da Crotone, aveva fatto conoscenza con Policrate nel seguente modo: a Crotone conviveva col padre, uomo facile all'ira, per cui, non potendo più sopportarlo, lo lasciò e andò a stabilirsi ad Egina. Stabilitosi colà, in un anno superò in abilità tutti i medici del luogo, sebbene fosse sprovvisto dei mezzi e degli strumenti necessari alla sua professione, tanto che l' anno dopo gli Egineti gli fissarono lo stipendio di un talento. Nel terzo anno gli Ateniesi lo stipendiarono per cento mine, nel quarto Policrate gli offrì due talenti, e fu così che egli si trasferì a Samo. Non poca fama venne ai medici di Crotone grazie a Democede: si disse anzi che essi erano, a quei tempi, i migliori medici greci, seguiti da quelli di Cirene.

Dopo aver guarito Dario, Democede ebbe a Susa una grande casa e divenne commensale del re e nulla gli mancava, salvo una cosa: la libertà di tornarsene in Grecia. Per sua intercessione i medici egiziani, che prima curavano il sovrano e stavano per essere impalati, perché si erano lasciati superare dal medico greco, furono graziati: e così pure l'indovino di Elea, che aveva fatto parte del seguito di Policrate ed era rimasto dimenticato fra gli schiavi di Orete. Insomma, Democede divenne un personaggio molto influente alla corte di Dario.

Dopo poco tempo avvenne che ad Atossa, figlia di Ciro e moglie di Dario, si sviluppò un tumore nella mammella, che poi scoppiò e cominciò a propagarsi per tutto il corpo. Finché il tumore fu piccolo, Atossa lo tenne nascosto a tutti per pudore e non ne parlò con nessuno: ma poi, essendosi il male aggravato, mandò a chiamare Democede e glielo mostrò. Questi le promise di guarirla, ma le fece giurare che avrebbe fatto per lui qualunque cosa le avesse chiesto, assicurandole però che non avrebbe preteso da lei nulla di disonorevole."


presso i Budini

"i Budini non hanno né la stessa lingua né lo stesso modo di vivere dei Geloni: sono autoctoni e nomadi e, soli fra i popoli della regione, mangiano i pinoli. I Geloni invece lavorano la terra, si cibano di grano, coltivano gli orti e differiscono anche nell' aspetto e nel colore della pelle. Tuttavia i Greci erroneamente chiamano Geloni i Budini. Il loro paese è coperto di dense foreste di alberi di ogni specie; nella più vasta di esse c'è un lago grande e profondo, contornato da acquitrini e canneti; nel lago si catturano lontre e castori e altri animali col muso quadrato, con le pelli dei quali, cucite insieme, si fanno fodere per i mantelli: i testicoli vengono usati per curare le malattie dell' utero."


rimedi per il catarro

"a occidente del lago Tritonide i libici non sono più nomadi, hanno usi diversi e non fanno più ai loro figli ciò che sogliono fare i libici. infatti questi ultimi -se tutti non posso dire con sicurezza, ma certo la maggior parte- quando i bambini hanno quattro anni, bruciano loro con lana di pecora non sgrassata le vene della parte superiore del capo e alcuni anche quelle delle tempie, per evitare che nel resto della loro vita soffrano del catarro che scende dalla testa: ritengono così di mantenere i bambini più sani. In verità i libici, fra tutti i popoli che conosciamo, sono quelli che godono una salute migliore; se ciò sia per l'uso che ho detto dinanzi, non lo posso asserire, ma certo è che sono sanissimi. Se ai bambini , mentre li cauterizzano, sopravvengono le convulsioni, applicano questo rimedio da loro scoperto: li annaffiano di urina di capra e così li guariscono. Dico cose che sono i libici stessi ad affermare.

lunedì 20 settembre 2010

Fonti di Erodoto (I)

Lo storico Erodoto 484 - 425 a.C. è, assieme a Tucidide e Senofonte, tra i maggiori storici dell' età classica dell' antica Grecia. La narrazione di Erodoto, pur proponendosi spesso di raccontare avvenimenti rilevanti dal punto di vista storico, come le guerre Persiane o altri avvicendamenti politici, in realtà si distingue da quella dei suoi contemporanei (e del resto da quella della maggior parte di altri storici) per la capacità di cogliere nella narrazione il momento per lunghe digressioni per raccontare usi, costumi, credenze ed episodi caratteristici dei popoli protagonisti. Così è soprattutto tramite Erodoto che abbiamo uno spaccato, anche della vita quotidiana, di molti popoli che altrimenti avremmo difficoltà ad immaginare, e così è grazie a lui che possiamo conoscere aneddoti sull' attività medica, sulla conoscenza dell' arte e sulla sua reputazione in mondi altrimenti perduti. L' unico problema, per noi, è che Erodoto non è stato accurato come altri nel ricercare l'affidabilità delle fonti: così, affianco a dettagliate e correttissime descrizioni dell'arte imbalsamatoria presso gli antichi egizi, abbiamo storie di cure "miracolose" o altre poco verosimili, in cui si è dato più spazio alla narrazione ed alla fantasia che aderenza alla realtà. Ciò nonostante rimane l'opera di Erodoto di massimo rilievo per chi, come noi, è molto curioso di conoscere la nostra attività nel passato, le conoscenze igieniche ed i farmaci dell'epoca. Qui è stato raccolta dall' opera maggiore, LE STORIE, una serie di brani in cui compare l'arte medica.

medici di babilonia

"un altro saggio consumo della Babilonia è di portare i malati fuori di casa, in piazza, dal momento che non esistono medici. I passanti si avvicinano all'infermo e gli dànno consiglio per la sua malattia o perché ne hanno sofferto essi stessi o perché hanno conosciuto qualcuno che ne soffriva. non è lecito passare accanto a un malato senza chiedergli di che male è affetto.


igiene tra gli egiziani

"gli egiziani sono i più osservanti, fra tutti i popoli, in materia di religione, ed ecco alcune norme da essi seguite: bevono in tazze di bronzo, che puliscono ogni giorno, tutti, senza esclusione alcuna. vestono abiti di lino, sempre lavati di fresco, e in questo sono scrupolosissimi. praticano la circoncisione per ragioni di pulizia, e preferiscono essere puliti che belli. i sacerdoti si radono tutto il corpo ogni due giorni, per timore che i pidocchi o altri insetti immondi contaminino coloro che servono la divinità: e indossano solo una veste di lino e calzari di papiro, né sarebbe loro lecito usare altra veste o altra calzatura. si lavano due volte al giorno con acqua fredda e due volte durante la notte, e si costringono a una infinità di altre pratiche. godono però anche di non pochi vantaggi; per esempio non consumano né spendono nulla del proprio, perché vivono di cibi preparati con cereali sacri, e ognuno di loro ogni giorno dispone di molta carne di bue e di oca, senza contare che viene distribuito loro vino d'uva. in egitto non si seminano fave e, se ne nascono spontaneamente, non vengono mangiate né crude né cotte: i sacerdoti poi non ne tollerano nemmeno la vista, ritenendole un legume immondo. non esiste un unico sacerdote per ogni dio, ma molti, di cui uno esercita la funzione di capo e, quando muore, gli succede nell'ufficio il figlio.


la fenice

"ma c'é un altro uccello sacro in egitto, che si chiama fenice. Io non l'ho visto se non dipinto: infatti esso appare in egitto molto raramente; a quanto dicono gli eliopolitani, ogni cinquecento anni, quando gli muore il padre. Se le pitture sono fedeli, questo è l' aspetto e queste le dimensioni della fenice: ha le penne parte d'oro, parte rosse, ed è simile per grandezza all' aquila. Dicono che essa compia cose meravigliose, che a me non sembrano credibili. Dicono cioè che, partita dall' Arabia, trasporta il corpo del proprio padre nel tempo del Sole, avvolto nella mirra, e qui lo seppellisce. E lo trasporterebbe in questo modo: prima fa con la mirra un grosso uovo e vi introduce il padre, poi con altra mirra tappa il buco fatto nell' uovo, in modo che, introdotto il cadavere, il peso sia lo stesso, e infine, così spalmatolo di mirra al di fuori, trasporta l'uovo con dentro il corpo in Egitto, nel tempio del Sole. Così farebbe dunque la fenice, a quanto dicono.


ancora salute tra gli egiziani

"..gli egiziani, quelli almeno che abitano la parte coltivata del paese, pongono, più di qualsiasi altro popolo, grande studio nel serbare il ricordo delle cose passate e per questo sono gli uomini più dotti che io abbia mai incontrato. ecco qual è il loro sistema di vita: si purgano tre giorni di seguito al mese e si conservano la salute con emetici e enteroclismi, poiché ritengono che tutte le malattie degli uomini abbiano origine dai cibi ingeriti. gli egiziani sono, dopo i libici, gli uomini più sani del mondo , e credo che cioò sia in grazia del loro clima, che non conosce mutamenti di stagione; infatti è proprio dal cambiamento di stagione che derivano di solito alla gente la maggior parte delle malattie. mangiano pane fatto di spelta, che chiamano "chillesti", bevono vino d'orzo, perché non hanno vigneti nel loro paese. dei pesci alcuni li mangiano crudi, dopo averli fatti seccare al sole, altri conservati in salamoia. degli uccelli mangiano crude, condite con sale, le quaglie, le anatre e gli uccelli piccoli; gli altri, pesci o uccelli, tranne quelli considerati sacri, li mangiano cotti a lesso o arrostiti.


medicina in egitto

"la medicina è ripartita in modo che vi è un medico per ogni genere di malattia, sicché tutto l'egitto è pieno di specialisti: ve ne sono per gli occhi, per la testa, per i denti, per il ventre e infine per le malattie d'origine incerta.


il cadavere a imbalsamare

"Vi sono persone preposte particolarmente a questa arte, le quali, quando viene portato loro un cadavere, mostrano a coloro che lo portano modelli in legno di cadaveri, dipinti al naturale, e dicono loro che perfetta fra tutte è l'imbalsamazione che riproduce quella cui fu sottoposto colui che stimerei sacrilegio nominare a questo proposito (Osiride, la cui imbalsamazione fu eseguita dal dio Anubi): mostrano poi loro un modello del secondo tipo di imbalsamazione, meno perfetto del precedente e di minor prezzo, e infine ne mostrano un terzo, che costa meno dei precedenti. Dopo di che chiedono ai parenti quale vogliono per il loro morto. Questi, accordatisi sul modello e sul prezzo, se ne vanno e gli imbalsamatori nel loro stesso laboratorio procedono all' operazione in modo accuratissimo. Prima con un ferro ricurvo estraggono attraverso le narici il cervello o, meglio, in parte lo estraggono, in parte lo dissolvono, versandovi sopra delle droghe. Poi con una pietra etiopica (forse un coltello di ossidiana) acuminata fanno un' incisione lungo l'addome, da cui estraggono tutti i visceri; purificano la cavità svuotata con vino di palma e poi ancora con aromi in polvere. Dopo di che lo riempiono di mirra pura tritata, di cannella e di altre spezie, incenso escluso, e infine ricuciono. Fatto questo, impregnano il morto di sodio puro, lasciandovelo immerso per settanta giorni; lavato il cadavere, lo avvolgono in fasce tagliate da un drappo di bisso e spalmate di quella gomma che gli egiziani usano in luogo della colla. Allora i parenti i riprendono il morto, gli fanno fare una cassa di legno dalla sagoma umana e ve lo ripongono: chiusa la cassa, la collocano nella tomba di famiglia, ritta contro una parete. Questo è il sistema di imbalsamazione più costoso.

Con coloro invece che hanno scelto il sistema intermedio, per evitare una spesa troppo forte, si comportano come segue: preparati degli enteroclismi, riempiono il ventre del morto di olio di cedro, senza inciderlo e senza estrargli le viscere, ma iniettando il liquido dal basso e impedendo che esca dall' orificio da cui è entrato. Poi mettono il cadavere nel sale per il numero di giorni prescritto. (cioè 70) L'ultimo giorno estraggono dalla cavità del ventre l'olio di cedro, che vi avevano introdotto ed esso è di tale potenza, che trascina fuori con sé gli intestini e gli altri visceri ormai macerati: le carni, invece, vengono dissolte dall' olio, e del corpo rimangono solo la pelle e le ossa. Fatto questo, riconsegnano senz' altro il cadavere a quelli che lo avevano affidato loro.

Il terzo sistema, che è praticato coi poveri, consiste nel pulire l'intestino con un enteroclisma e impregnare il corpo di sale per i settanta giorni stabiliti, dopo di che esso viene riconsegnato ai parenti perché se lo portino via.

Le mogli degli uomini importanti non vengono consegnate, appena morte, all'imbalsamatore, e neppure le donne di bellezza considerevole o di grande fama: la consegna avviene dopo tre o quattro giorni. E così si fa, perché gli addetti all' operazione non abusino del cadavere: dicono infatti che una volta uno di costoro fu sorpreso, su denuncia di un compagno di lavoro, mentre si univa carnalmente con il cadavere di una donna appena morta."


zanzariere

"Contro le zanzare numerosissime, quelli che abitano a nord delle paludi, hanno escogitato il sistema di andare a dormire in cima a certe loro torri: infatti le zanzare, causa i venti, non riescono a volare molto in alto. Quelli invece che abitano nella zona paludosa, hanno trovato altri mezzi di difesa invece delle torri. Ognuno di loro è in possesso di una rete, colla quale di giorno prende i pesci e di notte vi avviluppa il letto dove dorme; dopo di che vi si introduce, e così riesce a dormire, da essa protetto. Le zanzare, se si dorme avvolti in un mantello o in un lenzuolo, mordono attraverso il tessuto: invece attraverso la rete non ci si provano nemmeno."


venerdì 6 agosto 2010

Le Storie di Mileto

I due seguenti passi vengono tratti dalla raccolta "Storie di Mileto", A. Mondadori, a cura di Paola Ferrari. La raccolta si propone di individuare in numerosi passi di svariati autori della letteratura classica latina e greca elementi della perduta Fabula Milesia. Oltre ad essere presenti interessantissimi spaccati di vita quotidiana, forse nei suoi elementi più maliziosi, sono talora presenti anche episodi di storia della medicina. Questa volta, ovviamente, le descrizioni non descrivono eroiche gesta mediche o brillanti scoperte, ma piuttosto il ruolo del Medico dell' epoca nella sua pratica quotidiana così come la percezione delle malattie per l'epoca.

Nel brano di Senofonte Efesio è infatti interessante la descrizione dell' Epilessia, la malattia sacra, mentre in quello di Aristeneto è divertente leggere come operava il medico dell' epoca e quale fosse il suo status sociale.


SENOFONTE EFESIO, ANZIA E ABROCOME V, 7.

Dopo un po' di tempo, il lenone che aveva comprato Anzia la obbligò a mettersi in mostra davanti al bordello. Le fece indossare un abito vistoso e molti gioielli, e la condusse là dove la ragazza avrebbe dovuto offrirsi ai clienti. Lei si lamentava disperatamente, e diceva: "povera me, quante disgrazie! non è abbastanza quel che mi è capitato: le catene, i pirati? Ora sono costretta anche a fare la prostituta! Non ho ragione di disprezzare la mia bellezza, che rimane con me solo per procurarmi dei guai? Ma farei meglio a smettere di lamentarmi e a trovare un mezzo per conservare la castità che finora sono riuscita a difendere". Mentre diceva così, veniva trascinata al bordello, e intanto il lenone un po' le faceva animo, un po' la minacciava. Quando arrivò e fu messa in mostra, accorse una folla di persone che ammiravano la sua bellezza, e i più erano pronti a pagare per soddisfare il loro desiderio.

-La disgrazia sembrava irreparabile, ma la ragazza trovò una via di scampo: cade a terra, fa vibrare tutto il corpo, e si comporta come quelli che soffrono della malattia chiamata "sacra". I presenti furono presi da pietà mista a paura; rinunciarono a ogni appetito sessuale e si presero cura di Anzia. Il lenone capì la sfortuna che gli era capitata e, convinto che la ragazza fosse davvero malata, la portò a casa, la fece distendere e si occupò di lei; quando sembrò che stesse meglio, le chiese la causa della malattia. Anzia gli rispose:

"Già da un po' di tempo avrei voluto rivelarti la mia disgrazia, padrone, e spiegarti quel che mi capita; ma ho avuto vergogna e ho taciuto. Ora però non c'è più motivo che stia zitta, visto che ormai sai tutto sul mio conto. Quando ero ancora bambina, una volta presi parte a una festa: durante la veglia notturna mi allontanai dai miei parenti e finii vicino alla tomba di un uomo morto da poco; qui mi sembrò che qualcuno balzasse fuori dal sepolcro e cercassi di prendermi. Io fuggii gridando, perché quell' uomo aveva un aspetto spaventoso, e una voce ancora più terribile; alla fine si fece giorno, e lui mi lasciò andare; ma prima mi colpì al petto, e disse che mi aveva trasmesso questa malattia. E da allora, di tanto in tanto, sono soggetta agli attacchi del male, in forme sempre diverse. Ma ti supplico, padrone, non essere arrabbiato con me: la colpa non è mia. Tu puoi sempre rivendermi senza perdere nulla della somma che hai pagato per me."

Il lenone non fu affatto contento di sentire queste cose, ma non se la prendeva con lei, perché non era colpa della ragazza se si trovava in quelle condizioni.


ARISTENETO, Epistole I, 13 (Euticobulo ad Acestodoro)

Grazie alla lunga esperienza ho imparato anche questo, carissimo: perfino la scienza ha bisogno della fortuna ,e la fortuna a sua volta può essere sfruttata appieno solo grazie alla competenza. La scienza infatti non dà risultati se non è sostenuta dal dio, mentre la fortuna si esalta se offre la buona occasione a chi la sa sfruttare. Ma mi rendo conto che questa premessa è anche troppo lunga per chi ha fretta di ascoltare: veniamo dunque a i fatti, senza altri indugi. Caricle, il figlio di quel brav' uomo di Policle, era malato d'amore per una concubina del padre e languiva a letto: simulava una sofferenza fisica non meglio definita, ma in realtà era l'anima la sede della malattia. Il padre allora, da buon genitore affezionato al figlio, chiamò subito il medico Panaceo, un dottore davvero degno del suo nome. Costui appoggiò le dita sul polso e prese a spaziare con la mente nei più alti cieli della medicina. L' espressione dei suoi occhi tradiva con quanta concentrazione cercasse di formulare la diagnosi: ma non seppe trovare alcuna malattia nota all' arte medica. Per molto tempo l'illustre dottore non seppe che pesci pigliare; ma ecco che per caso la donna passò vicino al ragazzo: subito il polso accelerò e divenne irregolare, lo sguardo si velò e il viso denotava turbamento, esattamente come il polso. Da questi due segni Panaceo diagnosticò la malattia, ottenendo, grazie alla buona sorte, il successo che l'abilità gli aveva negato; ma tenne per sé la sua buona fortuna, riservandosi di parlare al momento opportuno. E, in occasione della prima visita, le cose andarono così. Quando tornò una seconda volta, ordinò che ogni ragazza e ogni donna della casa passasse davanti al letto dell' infermo, non a gruppi, ma a una a una, separate l' una dall' altra da un breve intervallo. E intanto tastava con le dita l'arteria del polso, che per i discepoli di Asclepio è l'ago della bussola, la spia infallibile del nostro stato di salute. Il malato d' amore rimaneva tranquillo davanti alle altre donne; ma quando apparve la concubina di cui era innamorato, subito lo sguardo e il polso gli si alterarono. Il medico, non meno fortunato che abile, fu ancor più sicuro in cuor suo della diagnosi e disse fra sé: "il terzo colpo è quello buono". Per quel giorno se ne andò, con il pretesto di dover preparare la medicina richiesta dalla malattia; promise di portarla il giorno dopo, e intanto confortava l'infermo con parole di speranza e consolava il padre addolorato. All' ora stabilita era di ritorno: il padre e tutti gli altri gli andarono incontro salutandolo amichevolmente e chiamandolo "salvatore". Ma quello esplose in grida di collera e dichiarò sdegnosamente di non volersi più occupare del caso. Policle si mise a supplicarlo, e gli chiese il motivo di quella decisione; ma lui gridava a voce ancor più alta il suo sdegno e manifestava l'intenzione di andarsene al più presto. Il padre lo supplicava ancora più insistentemente, baciandogli il petto e abbracciandogli le ginocchia. Allora, finalmente, il medico si lasciò indurre a spiegare, con parole piene di stizza, la ragione della rinuncia: "Questo qui è innamorato pazzo di mia moglie, è preda di una passione empia, e io sono geloso di lui e non sopporto la vista di chi minaccia il mio matrimonio". Policle, nell' udire la malattia del figlio, arrossì di vergogna, e si sentiva in imbarazzo alla presenza di Panaceo; tuttavia, dando ascolto solo alla voce del sangue, non esitò a implorare il medico di mettere a disposizione sua moglie: non si trattava, a suo dire, di adulterio, ma di un rimedio salutare e necessario. Mentre Policle ancora formulava queste preghiere, Panaceo si mise a urlare: fuori di sé, diceva quel che era naturale che dicesse un uomo a cui si chiedeva, sia pure facendo salve le forme, di trasformarsi da medico in mezzano e di cooperare alla seduzione della sua stessa moglie. Ma Policle tornava alla carica e insisteva a chiamare la cosa un mezzo di guarigione e non un adulterio. E allora il furbo medico gli presentò sotto forma di ipotesi quel che era accaduto davvero, e gli chiese: "Ma senti un po' per Zeus, se il ragazzo fosse innamorato della tua concubina, ti sentiresti di cedergliela?". "Certamente, per Zeus!" rispose quello. E allora l'astuto Panaceo replicò: "Supplica dunque te stesso, Policle, e trova le parole adatte per convincerti. E' la tua concubina quella che costui ama. Se è giusto, come dicevi, che io consegni mia moglie al primo venuto perché si possa salvare, a maggior ragione è giusto che tu dia la tua concubina al tuo figliolo in pericolo." Il ragionamento era ben congegnato, e la conclusione inoppugnabile: il padre si dovette convincere a rispettare i suoi impegni. Non prima però di aver commentato fra sé: "Non è una richiesta da poco! Ma se la scelta è fra due mali, bisogna scegliere il male minore".