domenica 18 dicembre 2011

UN'INSOLITA CURA PER L'IMPOTENZA

Si tratta di un brano estrapolato dalle pagine finali del Satiricon di Petronio, dove il protagonista, il simpatico Encolpio, sempre in compagnia del caro Gitone, in seguito a delle avance ottenute da una nobile e bella signora, Circe, non si trova all'altezza per un problema di disfunzione erettile presumibilmente di tipo funzionale e di origine emotiva.

il testo è innanzitutto molto ironico e divertente nello stile di Petronio, in più dà un'idea di come fossero diffusi allora rimedi balordi e magici per la cura delle malattie cosa in effetti ancor oggi osservabile in Europa. E' inoltre per noi occasione di conoscere la cura di un disturbo non organico cosa che raramente viene riportata nella letteratura "medica" antica. E' pur vero che mai sovviene al protagonista l'idea di rivolgersi ad un medico..



...


Encolpio, nel tempio di Priapo, prega il dio di restituirgli la virilità]


...


Mentre così levo il mio inno, e intanto vigilavo con attenta cura il mio povero defunto, eccoti entrare nel tempio la vecchia Proseleno, coi capelli scomposti e vestita di nero da far paura, mi piglia per il collo e mi trascina fuori del vestibolo.


-Che razza di strigi si son divorate i tuoi nervi?- mi dice. -niente niente, mentre bighelloni di notte per i trivi hai inciampato in qualche porcheria o in qualche cadavere? non sei riuscito a rifarti nemmeno con il tuo piccolino, perbacco! ecco qua: smidollato, sfiancato, rifinito come una rozza su per una salita, ci hai rimesso la fatica e il sudore. E magari ti fossi accontentato di far spropositi per conto tuo. Macché! O che non hai tirato addosso anche a me l'ira degli dèi?

Poi mi trascina nella cella della sacerdotessa senza che io nemmeno pensassi a far resistenza, mi rovescia sul letto, afferra la sbarra dell'uscio e comincia a pettinarmi di santa ragione mentre io rimango ancora lì come un citrullo. Per fortuna la sbarra si spezzò al primo colpo diminuendo così l'impeto di quella furia, altrimenti mi avrebbe fracassato magari anche le braccia e la testa. Io mi misi a piangere e tanto più quando sentii che mi afferrava il punto critico; e, nascostomi il capo con la destra, lo ficcai sotto il cuscino, grondante di lacrime. Quella, che adesso piangeva anche lei peggio di me, si mette a sedere sull'altra parte del letto e con voce tremante comincia ad accusarsi di esser vissuta troppo a lungo per vedere cose come quelle. Finalmente arrivò la sacerdotessa e tagliò corto a queste lamentele.

-Che diavolo, -dice, -siete venuti a fare nella mia cella, tutti in lacrime come davanti a un rogo funebre appena spento? e per di più in un giorno di festa, quando ridono anche quelli che dovrebbero piangere? -Enotea mia, -le rispose Proseleno, -questo giovanotto che vedi è nato sotto una cattiva stella, perché non c'è ragazzo né ragazza a cui possa vendere quel che ha di buono. Un disgraziato come lui non l'hai mai visto di sicuro: al posto di quel che dovrebbe avere ci ha un pezzo di cuoio fradicio. A farla breve, come credi che possa essere uno che si è alzato dal letto di Circe senza aver combinato nulla?

A sentir questo, Enotea si mise a sedere tra noi e scosse la testa.

-Una malattia di questo genere, -disse poi, - non ci sono che io che sappia guarirla. E mica vi racconto frottole; chiedo solo che dorma una notte con me e non son più io se non glielo rimetto a posto duro come un corno.


"tutto al mondo mi è schiavo. La terra più fiorita,

se voglio, perde i succhi e langue inaridita,

se voglio lussureggia. Dalle rupi montane

fo uscire l'acque del Nilo. L'oceano si rimane

immobile al mio cenno, gli zefiri silenti

riposano ai miei piedi. A me fiumi e torrenti

obbediscono, e ircane tigri, e dragon fedeli.

Ma non basta: a' miei incanti precipita dai cieli

l'alto disco lunare, e Febo, timoroso,

frena i destrieri indomiti per guidarli a ritroso.

Tanto piò il detto. Il rabido torello sa quetare

la prece di una vergine, e Circe, la solare,

i compagni di Ulisse co' suoi incanti trasforma,

mentre mutarsi Proteo può come vuol. La norma

dell'arte io so: dall'Ida potrò trarre nel mare

le selve, e sulle vette i fiumi trasportare.


Inorridito da tante favolose promesse, mi sentii rabbrividire , e mi misi a osservar la vecchia sacerdotessa stando bene attento a quel che faceva.

-Avanti, -esclama allora Enotea, -obbedite al mio comando!

E, dopo essersi lavata accuratamente le mani, si chinò sul letto e mi baciò più volte. Portò poi in mezzo all'altare una vecchia tavola, la riempì di carboni ardenti, e, riscaldata un po' di pece, aggiustò con quella una ciotola, vecchia anche quella e rotta. Poi tornò a ficcare nella parete affumicata il chiodo da cui pendeva la ciotola di legno e che si era staccato quando l'aveva tolta. Si mise allora addosso una coperta quadrata e pose sul fuoco un'enorme cuccuma; dopo di che, con una forca trasse dalla dispensa un panno in cui erano raccolte delle fave destinate a quell'uso e un avanzo stravecchio di testa di maiale tutto tagliuzzato. Ecco che scioglie i nodi del panno, versa sulla mensa una parte delle fave e mi comanda di mondarle con tutta cura. Io obbedisco e mi accingo pazientemente a metter da parte cerve fave dal guscio marcio come più non si poteva; ma lei mi dà a un tratto del buonannulla, ripiglia sù le fave marce, strappa via il guscio coi denti e sputa a terra le bucce che parevan tante mosche da rivoltar lo stomaco. La povertà è ingegnosa, perdinci; e in quel tugurio ogni cosa era impiegata con molta abilità.


Non vi fulgea l'avorio d'India, incrostato d'oro,

né alcun lucido marmo al suol dava decoro

tolto alla madre terra; ma di salice un letto

che solo poca paglia copria, e di loto schietto

tazze che un'umil ruota tornia con facil gesto,

stillanti d'acqua, e cesti di vimine contesto,

e una brocca macchiata di vino appena. V'era

attorno alla parete, che di paglia leggera

e d'argilla era fatta, di rozzi chiodi adunchi, una fila, e graticci pendean di verdi giunchi.

Appese le provviste alla trave fumosa

eran dell'umil casa: la sorba saporosa

tra corone d'erbette odorant, e la grata

santoreggia, e una passa a grappoli ordinata:

così, degna di culto, Ecale, un dì accogliesti

Tèseo, là in terra d'Attica, e grande onor ne avesti

da Callimaco, musa del figliuolo di Batto,

che trasmise il tuo nome ed immortal ti ha fatto.


Ma, ahimè, mentre la vecchia sacerdotessa, sbocconcellando qualche briciola di carne, va per riporre con la forca nella dispensa la mezza testa di maiale, veneranda contemporanea della sua nascita, lo sgabello tarlato su cui era montata si sfascia e lei va cader di peso in mezzo al focolare. Il collo della cuccuma va in pezzi e lei stessa si brucia un gomito sur un tizzo ardente e fa saltar sù un nugulo di cenere che le imbratta tutto il viso. Io mi alzai di botto e. trattenendo appena le risa, rimisi in piedi la vecchia.... che scappò in fretta a cercar nel vicinato qualche cosa per riattivare il fuoco affinché nulla ritardasse il sacrificio.


[rimasto solo, Encolpio pensa forse a fuggire.]


(all'uscio Encolpio incappa in tre oche che gli ostacolano la fuga e mangiano le fave; ne ammazza una e le altre due fuggono. Per Enotea è un gesto gravissimo, ma due bei pezzi d'oro risolvono facilmente la questione)


[Frattanto Enotea comincia i suoi sortilegi.]


Mi mise in mano una ciotola piena di vino, mi comandò di tener le dita ben distese e, dopo avermele purificate a forza di fregarle con porri e con prezzemolo, gettò nel vino delle noci avellane borbottando scongiuri. A seconda che quelle stessero a galla o andassero a fondo traeva i suoi pronostici, ma io vedevo bene che le nocciole vuote e piene d'aria restavano al sommo del liquido e quelle piene e col frutto intatto calavan giù. Poi, sventrata l'oca, ne cavò un fegato enorme e da quello mi predisse il futuro. Anzi, perché non restasse alcuna traccia del mio delitto, tagliò a pezzi tutto l'animale, li infilò nello spiedo e preparò un festino in piena regola a quello che poco prima, a sentir lei, avrebbe dovuto andare difilato in croce. Frattanto volavano certe bevute di vino puro che lèvati.


Poi Enotea tira fuori un fallo di cuoio da far paura, lo unge tutto d'olio, di pepe in polvere e di semi di ortica tritati e, senza dir ai né bai, comincia a ficcarmelo dentro piano piano. E mica si ferma lì, quella terribile vecchia: eccoti che mi unge tutte le cosce con la stessa miscela d'inferno, e poi mette insieme sugo di nasturzio e di abrotano e mi spalma con quella porcheria le parti colpevoli, e infine afferra un fascio di ortica verde e si mette a frustarmi lentamente con quello dall'ombellico in giù.


[Esasperato il giovane fugge.]


(accadono diversi episodi che coinvolgono il protagonista, Gitone, l'ancella Criside e Circe; anche il testo originale è lacunoso)


[Vi è qui una vasta lacuna. Un intervengo divino sembra aver restituito a Encolpio il suo vigore.]


-Divinità ben più potenti, - gli urlo negli orecchi, -hanno rifatto di me un uomo completo. Lo stesso Mercurio, che conduce e riconduce le anime, mi ha reso con la sua benevolenza quel che una mano irata mi aveva tolto. E, se proprio vuoi convincerti che io sono adesso assai meglio fornito di Protesilao o di qualsiasi altro eroe dell'antichità, guarda qua!

E così dicendo mi rialzo la tunica e mi mostro a Eumolpo in tutta la mia gloria. Quello dapprima dà un balzo indietro sbigottito, poi, non sapendo prestar fede ai suoi occhi, mi afferra a due mani quella grazia degli dèi.